Il seguente articolo riporta una verità certa e conclamata, dichiaratamente ammessa dai fautori di tutto ciò.
Due punti caratterizzano lo studio che andremo a sviscerare:
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La totale aspecificità dei “test HIV” e la natura NON VIRALE delle proteine, che sono tutte cellulari come dimostrato dalla letteratura scientifica;
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L’ammissione (del Premio Nobel Montagnier e da altri eminenti scienziati come Bess e Glederblom) di NON aver mai purificato il virus; ammettendo ciò si dichiara che tale virus NON ESISTE ; il tutto viene confermato dai più grandi retrovirologi al mondo.
Questo non è Negazionismo ma verità supportata da evidenze reali.
Prima di proseguire con la lettura dell’articolo,vi invitiamo a scaricare la documentazione di seguito postata:
IMPLICAZIONI MORALI, ETICHE E POLITICHE DELLA RICERCA SULL’AIDS. UN ALLARME SOCIALE, IL TERRORE MEDIATICO. “QUANDO LA COMUNITA’ SCIENTIFICA CHIEDE LA VERITA’ AI VERTICI GOVERNATIVI SANITARI MA NON RICEVE RISPOSTA ALCUNA”.
La mancata definizione della sieropositività riguardo i criteri italiani.
Fin dal suo esordio negli anni 1981-85, l’Aids ha coinvolto tutti. Di fronte all’esplosione della malattia, ognuno ha dovuto ripetutamente valutare il suo comportamento in un’ottica morale, spesso con un alto grado di coinvolgimento emotivo, anche se negli ultimi anni l’iniziale emotività si è molto attutita, soprattutto per il fatto che la temuta grande epidemia non si è materializzata.
Questo motiva la “battaglia” contro la voluta disinformazione. Ci fermeremo quindi a contestualizzare i due aspetti, fondendoli assieme: panico del pubblico e richiesta di risposte mai arrivate da parte della comunità scientifica alla stessa comunità scientifica (un immenso paradosso).
Fino a quando queste massime autorità potranno permettersi il lusso di non rispondere concretamente?
Poiché la causa ufficiale dell’Aids è identificata in un retrovirus, è ai retrovirologi che bisogna guardare con particolare attenzione; per questa motivazione approfondiremo la tematica condividendo con i lettori un’interessante corrispondenza tra alcuni scienziati e i ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità.
- Siamo nei primi anni duemila ed un ricercatore italiano si vide costretto, non riuscendo a trovare una sola prova del reale isolamento del retrovirus HIV, a contattare una delle più grandi esperte nazionali in campo AIDS, la dr.ssa Barbara Ensoli (allieva di Robert Gallo e Direttrice del Laboratorio di Virologia – Istituto Superiore di Sanità): gentile e disponibile, la Ensoli consigliò al ricercatore di effettuare una ricerca sul web, non indicando nessun articolo storico della “scoperta”. Stessa cosa successe al Premio Nobel Kary Mullis che chiese la stessa cosa direttamente a Luc Montagnier senza ricevere una risposta chiara.
- Un altro infettivologo italiano, il dr. Fabio Franchi, si trovò in una situazione simile nel tentare di comprendere la solidità e precisione dell’iter diagnostico per l’infezione da Hiv. Le informazioni da lui richieste erano infatti volte a far luce riguardo alla definizione della diagnosi di “sieropositività” secondo i criteri italiani.
Di seguito la corrispondenza.
Oggetto: Diagnosi di infezione Data: Wed, Mar 2002 07:52:31 +0000 Da: Fabio Franchi A: Direttore Lab Virologia
Gentilissima Direttrice del Laboratorio di Virologia Istituto Superiore di Sanità
Gentilissima Professoressa,
la prof V e il prof R ritengono che possa avere da Lei alcuni chiarimenti e fonti bibliografiche. Desidero conoscere quali sono i criteri minimi per la diagnosi di infezione da HIV in Italia, secondo quanto disposto dall’Istituto Superiore di Sanità. Ho già qualche elemento, ma non quello di cui avevo bisogno. Mi ero rivolto alla dott.ssa V, Le riporto perciò lo scambio epistolare a maggior chiarimento.
Sono un medico ospedaliero specializzato in Malattie Infettive. Lavoro a Trieste.
Oggetto: Criteri di interpretazione dei test Data: Mon, 1 Mar 2002 08:52:38 +0000 Da: Fabio Franchi A: V.
Gentilissima dott.ssa V,
Le avevo telefonato circa 2 settimane fa chiedendoLe quali fossero i criteri (minimi) di interpretazione dei test per stabilire la presenza di una “infezione da HIV”.
Nel sito dell’UNAIDS non ho trovato (forse per mia incapacità) quello che cercavo, ovvero definizioni italiane od europee chiaramente espresse.
Su una piccola pubblicazione del Ministero della Sanità (commissione nazionale per la lotta all’AIDS), edita presumibilmente nel 1992 (“AIDS la diagnosi il test il counseling”), vengono indicati 5 criteri di interpretazione del WB (con errori, tra l’altro!); in essa affermano che il 20% dei soggetti negativi al test Elisa, presentano un WB indeterminato. Ecco necessario stabilire qual’è un WB indeterminato. In Inghilterra non usano il WB come test di conferma, mi dicono. Le chiedo allora: quali sono le disposizioni più recenti delle Autorità Sanitarie italiane? A quali criteri si rifanno esattamente? La ringrazio anticipatamente per la Sua cortese risposta.
Fabio Franchi
Mi sono state gentilmente inviate fotocopie di una pubblicazione edita nel 1999 (Serpelloni, “HIV e Counseling”), che doveva chiarire i punti in questione, invece mi hanno ancora più sconcertato. Ecco la mia risposta.
Oggetto: Diagnosi di infezione Data: Sat, 12 Mar 2002 12:21:18 +0000 Da: Fabio Franchi A: V.
Cara Dottoressa,
La ringrazio per avermi fatto pervenire la pubblicazione sulla diagnosi di laboratorio dell’infezione da HIV in Italia. In essa tuttavia ho notato diversi errori ed incongruenze che mi hanno lasciato perplesso. Mi spiego meglio:
1) A pag 54 si legge: “la presenza di anticorpi verso proteine appartenenti a solo due regioni virali principali è sufficiente per diagnosticare l’infezione da HIV” … “un WB viene considerato positivo se contiene almeno due delle tre bande corrispondenti alle proteine p24, gp41 e gp 160/120”.
Ci si chiede se siano 3 o 4 le bande menzionate. Due delle tre significa che gp41 più gp160/120 sono sufficienti per fare diagnosi, pur appartenendo ad UNA sola “regione virale”. Dov’è l’errore? Se fosse vera la prima affermazione, allora le istruzione sui kit diagnostici largamente utilizzati (BIO-RAD New lav blot I) NON seguono le Vostre indicazioni.
2) A pag 54 si legge che i criteri di diagnosi sono stati modificati “RECENTEMENTE”, per cui vengono adottati (da noi Italiani?) quelli che i CDC hanno pubblicato nel 1989!! Il 1989 è tredici anni fa. In quelle viene spiegato che le bande 160/120 possono reagire all’anticorpo contro la gp41 (possono essere aggregati di gp41). Allora è sufficiente l’anti gp41 per fare diagnosi di infezione da HIV?
3) “I saggi virologici (ndr: la PCR per la carica virale) vanno utilizzati per la diagnosi solo in alcuni casi”: “per i soggetti ansiosi” in cui “il tempo necessario per la diagnosi finale può essere troppo lungo”!! (pag 55) Tuttavia abitualmente il saggio virologico “non si presta alla diagnosi di infezione da HIV” per difficoltà tecniche e perché “molto difficile da standardizzare”. Insomma un saggio non troppo sicuro che va bene però per i soggetti ansiosi!
4) La PCR non permette la “ricerca diretta dell’antigene” come affermato a pag 55.
Mi conferma che queste sono le linee guida del Centro Operativo AIDS? La ringrazio per la Sua attenzione,
Fabio Franchi
E’ a questo punto che la segretaria del prof. R e della professoressa V mi hanno consigliato di rivolgermi a Lei e così ho fatto.
Mi potrà aiutare? La ringrazio per l’attenzione, Fabio Franchi
NB Approfitto dell’occasione per augurarLe Buona Pasqua!
Oggetto: Diagnosi di infezione II Data: Wed, Apr 2002 08:39:32 +0100 Da: Fabio Franchi A: xx
Gentilissima Prof.ssa Direttrice del Laboratorio di Virologia Istituto Superiore di Sanità
Le ho recentemente inviato una e-mail (il 27/03) per chiederLe quale fossero le indicazioni dell’ISS riguardo la diagnosi laboratoristica di infezione da HIV, poiché le indicazioni in mio possesso (contenute in “HIV e Counseling”- Giovanni Sterpelloni 1999, Ed. “La Grafica”, inviatomi dalla dott.ssa V) rimandano ad uno dei criteri americani pubblicati nell’ormai lontano 1989. Nessun riferimento a linee guida italiane, niente di Europeo! Si tratta comunque di criteri diversi da quelli utilizzati attualmente nei test ospedalieri. Nella prefazione del testo “HIV e Counseling” si precisa inoltre che “la responsabilità dei dati scientifici …” (contenuti nella medesima pubblicazione) “è dei singoli autori”. Una presa di distanza.
Attendo perciò lumi da Lei. La ringrazio dell’attenzione che vorrà prestarmi. Fabio Franchi
Risposta:
Oggetto: Diagnosi di infezione da HIV Data: Fri, Apr 2002 12:09:01 +0200 Da: Direttore Lab Virologia
VIR/236
Ho ricevuto la sua e-mail circa i criteri per effettuare una diagnosi sierologica di infezione da HIV. Va infatti precisato che la diagnosi sierologica (presenza di anticorpi) è sufficiente per effettuare la diagnosi di positività. La ricerca dell’RNA virale è una tappa successiva per valutare le opportunità o meno di iniziare la terapia antiretrovirale e per il suo monitoraggio. La diagnosi sierologica prevede un primo saggio di screening (di solito un Elisa) utilizzando un kit autorizzato. In caso di reattività viene richiesto un saggio di conferma (western blot o immunoblot).
Sono stati pubblicati diversi criteri di interpretazione del western blot e tutti risalgono ormai a molti anni fa. Di fatto i Kit western blot non sono cambiati e pertanto valgono sempre gli stessi criteri. Il criterio più comunemente usato è stato suggerito dai CDC americani (MMWR 38, 21/7/1989) ed è il seguente:
positivo in presenza (intensità 1 o >) di almeno due delle seguenti bande; p24, gp41, gp120/160; (le bande gp120, gp 160 non sono sempre chiaramente identificabili);
negativo in assenza di ogni banda;
indeterminato in presenza di ogni altra banda o combinazione di bande che non rientrino nel criterio di positivo;
positivo per HIV-2 in presenza della banda gp36 (se inserita nel kit).
In saggio immunoblot (es. RIBA) positivo in presenza di due o più bande;
indeterminato in presenza di una sola banda;
negativo in assenza di ogni banda.
Con questi criteri di minima la maggior parte dei sieri risulta chiaramente identificabile come positivo. Spero con questo di aver risposto al suo quesito.
Prof.ssa XX
Oggetto: Re: Diagnosi di infezione da HIV Data: Fri, 26 Apr 2002 19:33:55 +0100 Da: Fabio Franchi A: XX
La ringrazio della risposta. Da quello che mi scrive desumo che:
1) Non c’è un riferimento bibliografico riguardo direttive del Ministero della Sanità su questo problema.
2) Non vi sono indicazioni precise su quale criterio (di lettura delle striscie del WB) sia da seguire, criterio che è lasciato alla scelta del laboratorio. Laboratorio che segue le indicazioni del produttore di test. Produttore del test che non da’ riferimenti bibliografici e che può discostarsi da quelli da Lei indicati (vedi : “AIDS, LA DIAGNOSI, IL TEST, IL COUNSELING”, Commissione Nazionale per la Lotta Contro l’AIDS, 1992 “… fino al 20% dei soggetti negativi alla ricerca di anticorpi con la tecnica Elisa presentano un WB indeterminato pur non essendo infettati con l’HIV” ).
2) Non vi sono direttive europee comuni.
3) Le 2 bande richieste possono appartenere alla stessa regione (a differenza da quanto scritto sulla pubblicazione precedentemente menzionata – “HIV e Counseling”- Giovanni Sterpelloni 1999, Ed. “La Grafica”-). Nello stesso MMWR 38, 21/7/1989, si precisa come le bande 120 e 160 potrebbero essere forme multimeriche di gp41.
4) I CDC hanno pubblicato criteri più recenti in cui si indica l’utilizzo della ricerca diretta del virus con PCR per la definizione di infezione da HIV
- http://www.cdc.gov/mmwr/preview/mmwrhtml/rr4813a2.htm .
Sono tali criteri adottati anche in Italia? Grazie per l’attenzione Fabio Franchi
Conferma del messaggio inviato a
Xxx alle 26/04/02 20.33
Il messaggio è stato visualizzato nel computer del destinatario alle 29/04/02 8.41
- Non è arrivata alcuna ulteriore risposta da parte del Direttore.
APPENDICE
A riprova di quanto da me affermato, riporto le istruzioni allegate ad un kit usato in Italia, in cui prevedono un risultato indeterminato anche in presenza di tre bande (ognuna delle quali derivanti da una diversa “regione” virale):
Secondo I dati presentati da Lundberg et al. (JAMA 260:674-679), se si usano i criteri diagnostici della FDA per interpretare il Western Blot, meno del 50% dei pazienti statunitensi affetti da AIDS sono risultano positivi, mentre il 10% dei soggetti non a rischio di AIDS risultano positivi in base ai medesimi criteri.
Ricordiamo che tutte le proteine attribuite ad HIV sono CELLULARI e non virali.
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Le tre ‘prove’ dell’isolamento virale
È possibile comprendere il procedimento seguito da Gallo e Montagnier nella loro ‘dimostrazione’ senza entrare in dettagli molto tecnici. È sufficiente spiegare che i due ricercatori utilizzarono tre criteri principali soddisfatti i quali sostennero di aver appunto isolato il virus Hiv. Uno di questi era il risultato positivo a un test anticorpale (quello che sarebbe divenuto il famoso test dell’Aids).
Ebbene, secondo quanto riportato nella pubblicazione, questo era incredibilmente pronto sullo scaffale prima ancora che il virus fosse isolato per la prima volta. Come Gallo abbia fatto a ottenere dai conigli degli anticorpi specifici contro un virus che ancora nessuno – lui compreso – conosceva, resta un gaudioso mistero, conseguenza di una capacità divinatoria che agli umani è solitamente negata.
Ecco il commento di Valendar Turner, medico australiano e coautore con Eleni Eleopulos di alcuni dei più importanti lavori sulla invalidità dei test dell’Aids:
“Per ottenere degli anticorpi contro l’Hiv, uno deve iniettare ai conigli dell’Hiv puro. Virus puro significa virus isolato e se ai conigli venne iniettato del virus puro, perché dovrebbe essere necessario produrre anticorpi per definire l’isolamento del virus che era già stato isolato?”
Comunque quel test si rivelò aspecifico.
Zolla Pazner al riguardo scrisse nel 1989: “Confusione sulla identificazione di queste bande (n.d.a.: si riferisce ai risultati del test dell’Aids) è risultata in conclusioni scorrette negli studi sperimentali. potrebbe essere necessaria la reinterpretazione dei risultati già pubblicati”. Risposte anticorpali simili (risultato positivo al test dell’Aids) sono state ottenute iniettando ad animali di laboratorio “vaccino” oppure anche solo … “eccipiente”.
Oltre al test sopra menzionato, chiaramente invalido, gli stessi ricercatori utilizzarono, come detto, altri due criteri, o ‘proprietà’, che dovevano corroborare la loro convinzione di avere ‘purificato’ proprio il nuovo virus e non altro. Tuttavia la loro mancanza di specificità è stata dimostrata in modo inequivocabile negli anni passati.
Ora non è neppure necessario ricorrere a una argomentazione per demolire il significato di tali “esperimenti probatori” e costrutti teorici: lo stesso Montagnier ha recentemente ammesso che in fin dei conti non fece quanto ha sempre affermato di aver fatto e che gli altri continuano ad attribuirgli! Infatti riferendosi alle tre proprietà che proverebbero l’esistenza dell’Hiv, afferma:
“Non è una proprietà, ma l’assemblaggio delle proprietà che ci permise di dire che si trattava di un retrovirus. Se ciascuna proprietà è presa isolatamente, esse non sono specifiche. È il loro assemblaggio che dà la specificità.”
Prima di passare alle slide raffiguranti i foglietti illustrativi dei test,a proposito di ISOLAMENTO e di purificazione di questo fantomatico virus, proponiamo il parere dei grandi retrovirologi al mondo e a seguire l’intervista a Luc Montagnier ideata ed eseguita da Djamel Tahi nel 1997.
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LA QUESTIONE DELLA PURIFICAZIONE VIRALE:
L’unico modo per dimostrare l’esistenza di un nuovo retrovirus. Il parere unanime dei più grandi retrovirologi del mondo”
LA PURIFICAZIONE E’ NECESSARIA PER DIMOSTRARE L’ESISTENZA DI UN NUOVO RETROVIRUS?”
1)White and Fenner: “It’s an essential pre-requisite”. 2)Montagnier: “It is necessary”. 3)Gallo: “You have to purify”. 4)Barré-Sinoussi: “…you have to purify the virus from all this mess”. 5)JC Chermann: “Yes, of course…Absolutely”. 6)Prof. David Gordon: “It’s a natural step from obtaining the virus in cell culture to then obtain purified virus”. 7)Prof. Dominic Dwyer: “The purification, as far as one can go, is important in analysis of any virus or bacteria, for that matter well”.
- PERCHE’ LA PURIFICAZIONE E’ QUINDI NECESSARIA?
1)White and Fenner: “…for the chemical analysis of viruses”. To prove that the virus particles have unique proteins and RNA.
2)Montagnier: “…analysis of the proteins of the virus [obviously this also applies to the viral RNA, the genome] demands mass production and purification. It is necessary to do that”.
3)Montagnier: “To prove that you have a real virus”.
4)Barré-Sinoussi: “Because we wanted these diagnostic kits [the antibody tests] to be as specific as possible. If you use a preparation of virus which is not purified of course you will detect antibody to everything not only against the virus but also to all the proteins that are produced in the supernatant”. 5)JC Chermann: To identify the HIV proteins and RNA they had to extract them “from the virus which we had concentrated and purified”.
5)JC Chermann: To identify the HIV proteins and RNA they had to extract them “from the virus which we had concentrated and purified”.
6)Gallo: “Conclusive serological testing, in our view, required finer, more specific assays based on using purified virus particles of proteins obtained from the virus instead of whole cells infected with virus”.
7)Gelderblom: “…because this house [the Robert Koch Institute in Berlin] in ‘85 already established ELISA antigen material [“HIV” proteins]…for testing people…we had to look at the material that was used for the ELISA”.
8)Prof. David Cooper: “Once the virus is purified, it’s then genetically sequenced and those sequences are unique [must be unique] just like every organism on the planet has unique sequences and markers”.
9)Prof. David Gordon: “…because purification of virus is then very useful for further studies for the nature of the virus and the nature of the immune response against the virus”.
10)Prof. Dominic Dwyer: “Well, in the diagnostic sort of situation what that really is looking for is looking for presence of those conserved bits of genetic material that you know to be the pathogen, be it HIV or flu or whatever, you then use that technology to see whether those sequences or those bits are present in something else, in another clinical sample, for example. And that really now has become, you know, the main method of diagnosis of many pathogens in a laboratory now…I mean with genetic testing – I guess the upside of course is you can do it on everybody, it’s pretty cheap, it’s extremely reliable and robust, the downside is that you have to know the genetic structure to begin with, you have to have the genetic sequence of what you are after. So when a new virus emerges, like SARS, you can’t necessarily use, reliably, nucleic acid testing until you get the sequence of that new virus for the first time. So then in fact you are in a first identifier, you are required to use these more traditional methods of virus culture and microscopy and so on”.
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Intervista a Luc Montagnier
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“Montagnier scoprì l’HIV?” Di Djamel Tahi
- Continuum inverno 1997 Testo della conferenza filmata effettuata all’Istituto Pasteur nel luglio 1997
Lo stesso Montagnier ammette apertamente di NON avere MAI purificato il virus
DT: Un gruppo di scienziati australiani afferma che nessuno finora ha isolato il virus dell’AIDS, l’HIV. Per loro le regole dell’isolamento dei retrovirus non sono state correttamente rispettate per l’HIV. Queste regole sono: coltura, purificazione del materiale con ultracentrifugazione, fotografie con Microscopio Elettronico (EM) del materiale che si separa alla densità dei retrovirus, caratterizzazione di queste particelle, prova della infettività delle particelle.
LM: No, questo non è isolamento. Noi effettuammo l’isolamento poiché noi “passammo oltre” il virus, noi facemmo una coltura del virus. Per esempio Gallo disse: “Essi non hanno isolato il virus … e noi (Gallo et al.), noi l’abbiamo fatto emergere in abbondanza in una linea cellulare immortale.” Ma prima di farlo emergere in linee cellulari immortali, noi lo facemmo emergere in colture di linfociti normali di un donatore di sangue. Questo è il criterio principale. Uno aveva qualcosa che poteva passare avanti serialmente, che uno poteva mantenere. E caratterizzarlo come un retrovirus non solo per le sue proprietà visive, ma anche biochimicamente, l’attività della RT (transcriptasi inversa) che è propriamente specifica dei retrovirus. Noi avevamo anche la reazione degli anticorpi contro alcune proteine, probabilmente le proteine interne. Dico probabilmente per analogia con la conoscenza di altri retrovirus. Uno non avrebbe potuto isolare questo retrovirus senza la conoscenza di altri retrovirus, questo è ovvio. Del tutto.
DT: Mi lasci tornare alle regole dell’isolamento virale che sono: coltura, purificazione alla densità dei retrovirus, fotografie al microscopio elettronico del materiale alla densità dei retrovirus, caratterizzazione delle particelle, prova della infettività delle particelle. Sono stati effettuati tutti questi passaggi per l’isolamento dell’HIV? Vorrei aggiungere che, in accordo con le numerose citazioni bibliografiche pubblicate dal gruppo australiano, la Transcriptasi inversa non è specifica dei retrovirus ed in più il Suo lavoro per individuare la transcriptasi inversa non venne forse fatto su materiale purificato?
LM: Io penso che abbiamo pubblicato su Science (maggio 1983) un gradiente che ha dimostrato che la transcriptasi inversa (RT) aveva la densità di 1,16. Così uno aveva un picco che era la RT. Così uno ha assolto questo criterio di purificazione. Ma effettuarlo in passaggi seriali è difficile perché quando poni il materiale in purificazione, in un gradiente, i retrovirus sono molto fragile, così si rompono uno con l’altro e perdono gran parte della loro infettività. Ma penso che anche così abbiamo mantenuto una parte della loro infettività. Ma non era così semplice come lo è oggigiorno, perché le quantità del virus erano comunque molto basse. All’inizio noi ci imbattemmo in un virus che non uccideva cellule. Il virus veniva da un paziente asintomatico e così fu classificato tra i virus non formanti sincizi, non citopatogeni usando il co-recettore ccr5. Era il primo virus BRU. Se ne aveva una piccolissima quantità, e non si poteva passarlo nelle linee di cellule immortali. Provammo per alcuni mesi, non ci riuscimmo. Riuscimmo molto facilmente con il secondo ceppo. Ma qui sta il problema piuttosto misterioso della contaminazione di quel secondo ceppo dal primo. Questo era il LAI.
DT: Perché le fotografie al ME da Lei pubblicate provengono dalla coltura e non dalla purificazione?
LM: C’era così poca produzione di virus che era impossibile vedere cosa poteva esserci in un concentrato di virus da un gradiente. C’era troppo poco virus per fare quello. Naturalmente lo si cercava, lo si cercava nei tessuti fin dall’inizio, così nelle biopsie. Noi vedemmo alcune particelle ma non avevano la morfologia tipica dei retrovirus. Esse erano molto differenti. Relativamente differenti. Così con le colture ci vollero molte ore per trovare le prime immagini. Fu uno sforzo titanico! E’ facile criticare dopo l’evento. Quello che non avevamo, ed io l’ho sempre riconosciuto, era la dimostrazione che fosse veramente la causa dell’AIDS.
DT: Come è possibile senza la fotografie con microscopio elettronico dalla purificazione sapere se queste particelle sono virali ed appartengono ad un retrovirus, più in particolare ad uno specifico retrovirus?
LM: Bene c’erano fotografie della gemmazione. Noi pubblicammo immagini della gemmazione che sono caratteristici dei retrovirus. Avendo detto ciò, unicamente sulla morfologia non si poteva affermare che era veramente un retrovirus. Per esempio, uno specialista francese di Microscopia elettronica pubblicamente mi ha attaccato dicendo: “Questo non è un retrovirus, è un arena virus”. Questo perché ci sono altre famiglie di virus che gemmano e hanno estroflessioni sulla superficie, etc.
DT: Perché questa confusione? Le fotografie con Microscopio Elettronico non mostravano chiaramente un retrovirus?
LM: In quel momento I retrovirus meglio conosciuti erano quelli di tipo C, che erano molto tipici. Questo retrovirus non era di tipo C ed i lentivirus erano poco conosciuti. Io stesso l’ho riconosciuto cercando tra le fotografie del virus dell’anemia infettiva equina nella biblioteca, e poi il virus Visna. Ma, io ripeto, non era solamente la morfologia della gemmazione, c’era la transcriptasi inversa … era l’associazione di queste proprietà che mi indusse a dire che era un retrovirus .
DT: A proposito di transcriptasi inversa, è rivelata nelle colture. Quindi c’è la purificazione dove uno trova particelle retrovirali. Ma a questa densità ci sono molti altri elementi, tra gli altri quelli che uno chiama “simil-virali”.
LM: Esattamente, esattamente. Se preferisce non è una proprietà ma l’assieme delle proprietà che ci fece dire che era un retrovirus della famiglia dei lentivirus. Presi da sole nessuna delle proprietà è veramente specifica. E’ l’associazione di esse. Così noi avevamo : la densità, RT, fotografie delle gemmazioni e l’analogia con il visna virus. Queste sono le quattro caratteristiche.
DT: Ma come tutti questi elementi costituiscono prova di un nuovo retrovirus? Alcuni di questi elementi potrebbero appartenere ad altre cose, “simil virali”…?
LM: Si, e per di più noi abbiamo retrovirus esogeni che talvolta esprimono particelle – ma di origine endogena, e che perciò non hanno ruoli patologici, in ogni caso non in AIDS.
DT: Ma uno come può cogliere la differenza?
LM: Perché noi potevamo passare oltre al virus. Noi passammo oltre alla attività della transcriptasi inversa nei nuovi linfociti. Noi ottenemmo un picco di replicazione e tenemmo traccia del virus. Era l’associazione delle proprietà che ci portò a dire che era un retrovirus. E perché nuovo? La prima domanda a noi posta dalla Natura era: “E’ o no una contaminazione di laboratorio? E’ forse un retrovirus murino o un virus animale?” Così uno poteva dire no! Perché noi abbiamo dimostrato che il paziente aveva anticorpi contro le proteine di questo virus. L’associazione (delle proprietà) ha una logica perfetta! Ma è importante prenderla come un’associazione. Se voi prendete ciascuna proprietà separatamente, essi non sono specifici. E’ l’associazione che da’ la specificità.
DT: Ma alla densità dei retrovirus, avete osservato particelle che assomigliavano a retrovirus? Un nuovo retrovirus?
LM: Alla densità di 1.5, 1.16, noi avevamo un picco di attività della transcriptasi inversa, che è l’enzima caratteristico dei retrovirus.
DT: Ma poteva quello essere qualcosa d’altro? LM: No nella mia opinione era molto chiaro. Non poteva essere che un retrovirus in quella maniera. Poiché l’enzima che Barré Sinoussi caratterizzò biochimicamente aveva bisogno del magnesio, così come l’HTLV. Aveva bisogno della matrice, il template, il primer che erano completamente caratteristici di una transcriptasi inversa. Questo era fuori discussione. A Cold Spring Harbour nel settembre 1983, Gallo mi domandò se io ero sicuro che era una RT:
Lo sapevo, Barré Sinoussi aveva fatto tutti I controlli per quello. Non era una semplice polimerasi, era una trascriptasi inversa. Lavorava solo con i primer a RNA, formava DNA: Questo era sicuro.
DT: Con gli altri retrovirus che avete incontrato nella vostra carriera, avete seguito le stesse procedure ed avete incontrato le stesse difficoltà.
LM: Direi che per l’HIV è un procedimento facile. Paragonato con gli ostacoli che uno trova con gli altri … poiché il virus non compare o perché l’isolamento è sporadico – si riesce una volta su cinque. Sto parlando circa la ricerca attuale su altre malattie. Uno può citare il virus della Sclerosi Multipla del prof Peron. Egli mi mostrò il suo lavoro 10 anni fa e ci mise circa dieci anni per trovare una sequenza genica che è molto vicina a quella di un retrovirus endogeno. Vede, è molto difficile. Poiché egli non riuscì a propagare il virus, egli non poté farlo crescere in una coltura. Mentre l’HIV cresce come erba matta. Il ceppo LAI per esempio cresce come erba matta. E’ così ha contaminato le altre colture.
DT: Con cosa coltivaste I linfociti del vostro paziente? Con la linea cellulare H9?
LM: No, poiché non funzionava affatto con la H9. Noi usammo molte linee cellulari e l’unica che poteva produrlo erano i linfociti Tambon.
DT: Ma usando questi tipi di elementi, è possibile introdurre altre cose capaci di indurre una RT e proteine, ecc?
LM: Completamente d’accordo. Questo è il motive per cui non eravamo tanto entusiasti di usare linee cellulari immortali. Per coltivare il virus in grandi quantità – OK. Ma non per caratterizzarlo, poiché noi eravamo consapevoli di portare dentro altre cose. Queste sono linee cellulari MT che sono state trovate dai Giapponesi (MT2, MT4) che replicano l’HIV molto bene e che nello stesso tempo sono trasformate dall’HTLV. Perciò voi avete una mistura di HIV e HTLV. E’ una vera minestra.
DT: Quel che più conta, non è possibile che il paziente sia infettato da altri agenti infettivi?
LM: Potevano esserci dei mycoplasmi … potevano esserci un sacco di cose, ma per fortuna avevamo l’esperienza negative con i virus associate con il cancro e che ci era d’aiuto, poiché avevamo incontrato tutti questi problemi. Per esempio, un giorno ebbi un bel picco di RT, che F. Barre-Sinoussi mi diede, con un gradiente di densità un po’ più alto, 1,19. Ed io controllai! Era un mycoplasma, non un retrovirus.
DT: Come accorgersi della differenza tra cosa è virale e cosa non lo è? Perché a questa densità c’è un sacco di altre cose, incluse particelle “simil virali”, frammenti cellulari …
LM: Sì, questo è il motive con le colture di cellule poiché uno vede le fasi della produzione virale. Voi avete l’estroflessione. Charles Dauget (uno specialista in microscopia elettronica) guardava piuttosto alle cellule. Ovviamente guardava anche il plasma, il concentrato, ecc non vide niente di importante. Poiché se fai un concentrato, è necessario fare sottili sezioni [per vedere con EM], e per fare sottili sezioni è necessario avere un concentrato almeno della grandezza di una testa di spillo. Queste sono le enormi quantità di virus che sono necessarie. All’opposto, si fa una sezione di cellule molto facilmente ed è in queste sezioni sottili che Charles Dauget trovò il retrovirus, in differenti fasi di estroflessione.
DT: Quando si guarda alle fotografie elettroniche, per lei che è un retrovirologo, è chiaramente un retrovirus, un nuovo retrovirus?
LM: No, a quel punto non si può dire. Con le prime immagini di estroflessione, potrebbe essere un virus tipo C. Non si può distinguere.
DT: Non potrebbe essere qualcosa d’altro che un retrovirus?
LM: No, ebbene, dopotutto, sì. Ma c’è un … noi abbiamo un atlante. Uno riconosce qualcosa per la padronanza dell’argomento, cos’é un retrovirus e cosa non lo è. Con la morfologia uno può distinguere, ma presuppone una certa buona conoscenza. No … bene, dopo tutto sì …avrebbe potuto essere un altro virus ad estroflettersi. Ma c’è un … noi abbiamo un atlante. Uno conosce un po’ dalla somiglianza, cosa è un retrovirus e cosa non lo è. Con la morfologia uno può distinguere, ma presuppone una certa famigliarità.
DT: Perché nessuna purificazione?
LM: Ripeto, noi non purificammo. Noi purificammo per caratterizzare la densità della RT, che era certamente quella di un retrovirus. Ma non cogliemmo il picco … o non funzionò … poiché se purifichi allora danneggi. Così per le particelle infettive è meglio non toccarle granché. Così, tu prendi semplicemente il sopranatante delle colture dei linfociti che hanno prodotto il virus e le poni in piccola quantità in altre colture di linfociti. E così segue che tu passi il retrovirus serialmente e trovi sempre le stesse caratteristiche e tu aumenti la produzione ogni volta che effettui un passaggio.
DT: Così lo stadio della purificazione non è necessario?
LM: No, no, non è necessario. Quello che è essenziale è passare avanti il virus. Il problema che Peron ebbe con il virus della sclerosi multipla era che non poteva passare il virus da una coltura ad un’altra. Questo è il problema. Egli provò un poco, non a sufficienza per caratterizzarlo. Ed oggigiorno caratterizzare significa soprattutto allo standard molecolare. Se tu vuoi la procedura va più velocemente. Per farlo: un DNA, clonare questo DNA, amplificarlo, determinarne la sequenza, ecc. Così tu hai il DNA, la sequenza di DNA che ti dice se questo è realmente un retrovirus. Uno conosce la struttura famigliare dei retrovirus, tutti i retrovirus hanno una struttura genomica famigliare con questo e quel determinato gene che sono caratteristici.
DT: Così, per l’isolamento dei retrovirus lo stadio di purificazione non è obbligatorio? Si può isolare senza purificare?
LM: Si, non si è obbligati a trasmettere materiale puro. Sarebbe meglio, ma c’è il problema che si danneggia (il virus) e si diminuisce la infettività dei retrovirus.
DT: Senza andare attraverso questo stadio di purificazione, non c’è un rischio di confusione sulle proteine che uno identifica e anche sulla transcriptasi inversa che potrebbe venire da qualcos’altro?
LM: No, dopotutto, ripeto che noi abbiamo un picco di RT alla densità di 1,15, 1,16, ci sono 999 probabilità su 1000 che è un retrovirus. Ma questo poteva essere un retrovirus di origine diversa. Ripeto, ci sono alcuni retrovirus endogeni, pseudo-particelle che possono essere emesse dalle cellule, ma anche così, dalla parte del genoma che codifica i retrovirus. E che uno acquisisce attraverso l’ereditarietà, nelle cellule per un tempo molto lungo. Ma infine io penso per la prova – poiché le cose evolvono nel modo consentito dalla biologia molecolare che permette persino una più facile caratterizzazione questi giorni – è necessario procedere molto velocemente alla clonazione. E questo venne fatto molto velocemente, sia da Gallo sia da noi stessi. Clonare e sequenziale, e così uno ha la completa caratterizzazione. Ma io ripeto, la prima caratterizzazione appartiene alla famiglia dei lentivirus, la densità l’estroflessione, ecc, le proprietà biologiche, l’associazione con le cellule T4. Tutte queste cose sono parte della caratterizzazione, e fummo noi a farlo.
DT: Ma viene il momento in cui uno deve effettuare la caratterizzazione del virus. Questo significa: quali sono le proteine di cui è composto?
LM: Questo è il punto. Così dunque, l’analisi delle proteine del virus richiede produzione di massa e purificazione. E’ necessario fare questo. E là io dovrei dire che questo parzialmente ha fallito.
J.C. Chermann aveva questo incarico, almeno per le proteine interne. Ed egli ebbe difficoltà nel produrre il virus e non funzionava. Ma questa era una possibile strada, l’altra era di ottenere l’acido nucleico, clonare, ecc. E’ questo il modo che ha funzionato molto velocemente. La prima strada non funzionava poiché noi avevamo a quel tempo un sistema di produzione che non era efficiente a sufficienza. Uno non aveva a disposizione abbastanza particelle prodotte per purificare e caratterizzare le proteine virali. Non poteva essere fatto. Uno non poteva produrre una adeguata quantità di virus a quel tempo, perché quel virus non si manifestava nelle linee cellulari immortali. Noi potemmo farlo con il virus LAI, ma a quel tempo noi non lo sapevamo.
DT: Gallo lo fece?
LM: Gallo? .. Non so se egli realmente purificò. Non lo credo. Io credo che si lanciò molto velocemente sulla parte molecolare, il che significa sulla clonazione. Quello che fece è il Western Blot. Noi usammo la tecnica RIPA, così quello che fecero era nuovo cioè dimostrarono alcune proteine che non si erano viste bene con le altre tecniche. C’è un altro aspetto della caratterizzazione del virus. Non puoi purificarlo ma se conosci qualcuno che ha gli anticorpi contro le proteine del virus, puoi purificare il complesso antigene/anticorpo. Questo è quello che si fece. E così uno aveva una banda visibile, marcata radio attivamente, che si chiamò proteina 25, p25. E Gallo ne vide altre. C’era la p25 che egli chiamò p24, c’era la p41, che egli vide …
DT: Riguardo gli anticorpi, numerosi studi hanno mostrato che questi anticorpi regiscono con alter proteine o elementi che non sono parte dell’HIV. E che non sono sufficienti a caratterizzare le proteine dell’HIV
LM: No! Poiché avevamo controlli. Noi avevamo persone che non avevano l’AIDS e non avevano anticorpi contro queste proteine. E le tecniche che abbiamo usato erano tecniche che io stesso avevo perfezionato alcuni anni prima, per individuare il gene src. Lei vede il gene src che fu anch’esso identificato con la immunoprecipitazione. Era la p60 (proteina 60). Ero molto abile, e così i miei tecnici, con la tecnica RIPA. Se uno ottiene una specifica reazione, è specifica.
DT: Ma noi sappiamo che I pazienti con AIDS sono infettati da una moltitudine di altri agenti infettivi che sono suscettibili a …
LM: Ah, sì, ma gli anticorpi sono molto specifici. Essi sanno come distinguere una molecola tra un milione. C’è una grandissima affinità. Quando gli anticorpi hanno una sufficiente affinità, Lei identifica qualcosa di realmente molto specifico. Con anticorpi monoclonali, Lei “pesca” realmente una sola proteina. Tutto questo è usato per la determinazione diagnostica dell’antigene.
DT: Per Lei la p41 non era di origine virale e così non apparteneva all’HIV. Perché questa contraddizione?
LM: Noi eravamo entrambi ragionevolmente corretti. Intendo dire che io con la mia tecnica RIPA … in effetti ci sono proteine cellulari che uno incontra dovunque – c’è un “rumore di fondo” nonspecifico, e tra queste proteine ce n’è una molto abbondante nelle cellule, che è l’actina. E questa proteina ha un peso molecolare di 43.000kd. Così, era lì presente. Così io avevo ragionevolmente ragione, ma quello che Gallo vide d’altra parte era la gp41 dell’HIV, poiché stava usando il Western Blot. E questo l’ho riconosciuto. DT: Per Lei la p24 era la proteina più specifica dell’HIV, per Gallo no assolutamente. Si sa grazie ad altri studi che gli anticorpi diretti contro la p24 erano spesso trovati in pazienti che non erano infettati con l’HIV, e persino in certi animali. Infatti oggi, una reazione anticorpale con la p24 è considerata non specifica.
LM: Non è sufficiente per diagnosticare l’infezione da HIV.
DT: Nessuna proteina è sufficiente?
LM: Nessuna proteina è sufficiente in ogni caso. Ma allora il problema non si è rivelato tale. Il problema era sapere se c’era un HTLV o no. L’unico retrovirus conosciuto era l’HTLV. E noi mostrammo chiaramente che non era un HTLV, che gli anticorpi monoclonali di Gallo contro la p24 dell’HTLV non riconosceva la p25 dell’HIV.
DT: Alla densità dei retrovirus, 1,16, c’è un quantità di particelle, ma solamente il 20% di quelle appartengono all’HIV. Perché l’80% delle proteine non sono virali e le altre sì? Come uno può stabilire la differenza?
LM: Ci sono due spiegazioni. Per una parte, alla densità dove hai quello che uno chiama micro vescicole di origine cellulare, che hanno approssimativamente la stessa dimensione del virus, e poi il virus stesso, nell’estroflettersi dalla cellula si porta dietro proteine cellulari. Così effettivamente queste proteine sono non virali, sono di origine cellulare. Così come stabilire la differenza?! Francamente con questa tecnica uno non può farlo con precisione. Quello che possiamo fare è purificare al massimo il virus con successivi gradienti, e tu ti ritrovi sempre con le stesse proteine.
DT: Le altre spariscono?
LM: Diciamo che le altre si riducono un po’. Voi togliete le microvescicole, ma ogni volta perdete una grande quantità di virus, così è necessario avere una grande quantità di virus per cominciare in modo di mantenerne un po’ quando arrivi alla fine. E di nuovo, c’è l’analisi molecolare, è la sequenza di queste proteine che permette di dire se esse sono di origine virale o no. Questo è quanto cominciammo per la p25, che fallì, e l’altra tecnica consiste nell’effettuare la clonazione, e così tu hai il DNA e dal DNA tu ottieni le proteine. Tu deduci la sequenza delle proteine e la loro dimensione, ed arrivi di nuovo su quello che hai già osservato con l’immunoprecipitazione o con elettroforesi in gel. E uno sa per analogia con la dimensione delle proteine di altri retrovirus, uno può dedurre con buona sicurezza queste proteine. Così poi avete la p25 che era vicino alla p24 dell’HTLV, avete la p18 … alla fine gli altri. D’altra parte quella che era molto differente era la proteina molto grande, la p120.
DT: Oggigiorno, sono stati risolti I problemi riguardo la produzione di massa del virus, fotografie al Microscopio elettronico a 1,16? LM: Si, certo. (31) DT: Esistono le fotografie dell’HIV al microscopio elettronico dalla purificazione?
LM: Sì, ovviamente.
DT: Sono state pubblicate?
LM: Non potrei dirLe … ne abbiamo alcuni da qualche parte … ma non riveste interesse, non è di nessun interesse.
- Questo è il test “ORAQUICK” che afferma “SI PENSA CHE L’HIV CAUSI L’AIDS” “EFFETTUARE UN TEST SUGLI ANTICORPI E’ UN AIUTO ACCURATO NELLA DIAGNOSI DI HIV”):
- Foglio illustrativo del Test Elisa per ANTICORPI HIV.
- Foglio illustrativo del « test di conferma » Western Blot:
- Ricordiamo che gli stessi produttori del test Elisa, alla voce “sensibilità e specificità del test” affermano:
“AD OGGI NON ESISTE UNO STANDARD RICONOSCIUTO PER STABILIRE LA PRESENZA O L’ASSENZA DI ANTICORPI HIV-1 E HIV-2 NEL SANGUE UMANO”.
Ma tale test viene usato per affermare che nel sangue analizzato del paziente gli anticorpi sono presenti.
Nel foglio illustrativo del test Western Blot, chiamato “test di conferma” perché appunto dovrebbe confermare un’infezione rivelatasi al primo test Elisa, si legge che:
“UN CAMPIONE DI SANGUE RISULTATO POSITIVO SIA AL TEST ELISA CHE AL TEST WESTERN BLOT SI PRESUME INFETTO DA HIV-1” e ancora:
“SEBBENE UN RISULTATO POSITIVO (ricordiamo che la sua positività cambia da paese a paese…) POTREBBE INDICARE INFEZIONE DA HIV-1, LA DIAGNOSI DI AIDS PUO’ ESSERE EFFETTUATA SOLO SE L’INDIVIDUO RISPECCHIA I CRITERI DIAGNOSTICI STABILITI DAL CDC (CENTER FOR DISEASES CONTROL)” e inoltre al punto 6 viene affermato:
“NON USARE IL WESTERN BLOT COME UNICO TEST DI CONFERMA DI DIAGNOSI DI POSITIVITA’ AL VIRUS HIV-1”.
- Ma questo viene chiamato e usato come test di conferma
Passando alla terza metodica diagnostica, la PCR (Reazione a catena della Polimerasi), ecco cosa riporta il foglio illustrativo del test:
“QUESTA TECNICA NON DEVE ESSERE USATA COME TEST DI SCREENING PER IL VIRUS HIV O COME STRUMENTO DIAGNOSTICO PER CONFERMARE LA PRESENZA DEL VIRUS”
Tuttavia,anche la PCR viene usata come strumento diagnostico. Di cosa parliamo?
- Come accennato all’inizio del nostro articolo, una lecita richiesta di informazioni da parte di un Virologo a cui nessuna risposta è stata data; la nostra domanda è:
- Viene fatto volutamente tutto ciò?
- Come può la rappresentanza dell’Istituto Superiore della Sanità fornire una statica risposta trovata grazie all’ausilio di una ricerca virtuale ?
- Questo atteggiamento è corretto?
- Come si può pretendere la “calma” della folla quando i vertici in primis nuotano nella confusione più totale? Tutto ciò è stato controllato?
Come ben abbiamo capito guardando qualche anno addietro,l’atteggiamento del pubblico, colpito dagli allarmi lanciati attraverso i mezzi di comunicazione, è oscillato da atteggiamenti di condanna e paura a quelli di solidarietà verso gli ‘infetti’. Il grande impatto provocato dalla commistione esplosiva tra amore, sesso e ‘rischio mortale’ ha portato non solo a sopravvalutare il problema, ma anche a una scarsa disposizione critica nei confronti di quella che Duesberg, Rubin e persino Montagnier hanno definito come la nuova religione: la ‘Scienza’. In questo è venuto largamente meno quell’atteggiamento critico e spregiudicato che la pratica scientifica dovrebbe favorire come costume intellettuale.
HIV E LA FRODE DEL NOSTRO SECOLO
Cenni storici sulla grande ed irreale pandemia mediatica
Molti i giornalisti e opinion leader negli anni ottanta si sono fatti paladini, attraverso la loro professione, di un’opera di tipo ‘missionario’: dovevano arrivare a quante più persone possibile e con il maggior impatto possibile. Ritenevano così di poter salvare con l’arma dell’informazione la società, che altrimenti avrebbe corso rischi gravissimi, poiché l’epidemia “era scoppiata” e il vaccino e la terapia non erano pronti. In una simile atmosfera, persino alcune esagerazioni erano giustificate.
Gli operatori sanitari, colpiti dalla drammaticità dei casi clinici e influenzati a loro volta dagli scienziati che spasmodicamente cercavano di fronteggiare un morbo apparentemente nuovo e inarrestabile, hanno reagito in modo simile. Da una parte vi era l’imperativo di assistere con dedizione i malati, di bloccare il contagio, dall’altro emergeva talvolta una sorta di risentimento verso tossicodipendenti, omosessuali e prostitute, i cui comportamenti sembravano mettere in grave pericolo quelli che, come loro, si trovavano in ‘prima linea’.
Dunque, per i giornalisti, il pubblico e i medici, l’atteggiamento morale si è a lungo dibattuto fra il tentativo di conciliare la difesa della società, la difesa degli individui colpiti, e le proprie preoccupazioni. Conciliazione non sempre facile da ottenere, se pensiamo che una delle proposte discusse negli anni Ottanta è stata quella di marchiare con un inchiostro indelebile i sieropositivi, in modo che i ‘sani’ non avessero difficoltà a riconoscerli ed evitarli.
La popolazione, all’inizio, si è completamente fidata di quanto comunicato con grande allarme dalle autorità sanitarie pubbliche; queste a loro volta si sono fidate delle ‘scoperte’ di un gruppo molto influente di scienziati.
Occorre però tenere conto del particolare momento in cui è avvenuta la ‘scoperta’: il ‘nuovo virus’ è apparso proprio in un’epoca in cui le malattie infettive erano ben conosciute e in gran parte controllate. Inoltre, solo pochi anni prima, negli anni Settanta, l’ipotesi sull’origine virale dei tumori, nella quale questi stessi gruppi di scienziati avevano riposto la speranza di grandi prospettive terapeutiche, aveva dovuto essere mestamente accantonata per manifesta inconsistenza. In questa situazione l’Aids poteva indubbiamente rappresentare per loro la possibilità di un grande riscatto.
Riteniamo, pertanto, che su questo gruppo di scienziati ricadesse la maggiore responsabilità complessiva, e perciò proprio da parte loro si sarebbe dovuto pretendere il più alto rigore intellettuale e morale, inteso come piena aderenza agli standard di precisione, acribia, pubblicità, comunicabilità della ricerca scientifica (onori e oneri). Poiché tale rigore è venuto a mancare proprio su aspetti di primaria importanza, come sarà facile esemplificare, ogni dubbio sui risultati vantati è giustificato. La mancata reazione a queste scorrettezze, una volta divenute di dominio pubblico, ha coinvolto e reso in un certo senso complice una fetta molto consistente della società, allargando appunto le responsabilità, inizialmente ristrette.
Infatti, il muro di censura non è stato impenetrabile, ha avuto ed ha brecce non trascurabili attraverso cui poter guardare. Fin dal 1987, e in misura maggiore dai primi anni Novanta, sono state pubblicate numerose critiche alle ipotesi ufficiali. Queste critiche, pubblicate su riviste scientifiche di primo piano (“New England Journal of Medicine”, “Science”, “Nature”, “Cancer Research”, “The Lancet”, “Genetica”, ecc.), sono poi state riprese con evidenza da alcuni mezzi di comunicazione.
La maggior parte dei ricercatori e dei medici hanno tuttavia scelto di non prenderle in considerazione. Si tratta di un atteggiamento in qualche modo legittimo? Chiaramente no: mentre dal punto di vista giuridico è fallace sostenere l’argomento “non poteva non sapere”, nel campo scientifico questa asserzione è valida. La ragione è semplice: mentre in campo giuridico ciò che conta è la responsabilità individuale, ossia l’accertamento che un determinato individuo abbia commesso o non commesso un reato, in campo scientifico fanno parte integrante delle qualità del ricercatore la conoscenza e il vaglio delle varie ipotesi esistenti nel suo ambito di ricerca. In altre parole:
Gli scienziati non possono sottrarsi ad una valutazione, secondo una precisa ottica scientifica, delle argomentazioni contrarie. Per chiarire con un esempio negativo, la pubblicazione di un lavoro di Duesberg – uno dei più prestigiosi critici delle dottrine ufficiali sull’Aids – sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”, la rivista della Accademia delle Scienze americana , è stata effettuata con l’impegno della rivista a pubblicare nel numero seguente una controreplica di Gallo.
Questo avveniva nel 1989 e a tutt’oggi Duesberg e i lettori la stanno ancora aspettando.
La cosa grave è che un tale silenzio è continuato anche quando, essendo addirittura affiorate segnalazioni documentate di frodi consistenti, non è avvenuta nessuna reazione adeguata.
Anche in queste occasioni la maggior parte della comunità scientifica ha fatto quadrato attorno a quelli che le hanno commesse, permettendo loro di continuare a muovere le fila della ricerca, dei fondi, delle pubblicazioni. Paradossalmente sono stati estromessi e isolati quelli che con coraggio hanno tentato di correggere – con una critica costruttiva, documentata e scientificamente valida – errori, distorsioni cognitive, non sequitur, chiari abusi empirici ed etici nelle sperimentazioni.
Aids e disinformazione
La grande stampa, le maggiori reti televisive, le principali riviste scientifiche hanno espresso la linea dei centri di potere scientifico operando una stretta censura sulle opinioni dissenzienti. In questo generale atteggiamento conformistico, alcuni canali d’informazione hanno, per la verità, riportato informazioni non allineate, ma non sono sinora riusciti a ribaltare la situazione. Come è stato possibile realizzare questo in un’epoca in cui Internet – che molto difficilmente può essere censurato – cominciava a dominare la scena mondiale? Se noi immaginiamo che la censura debba essere esplicita siamo in errore. La censura si può altrettanto bene, e forse meglio, esprimere attraverso il ‘consenso’ su teorie e fatti distorti. Di fatto, l’opinione pubblica e quella di settori specialistici è guidata proprio dal ‘consenso’ che viene espresso sui principali mezzi di comunicazione. È sufficiente controllare questi ultimi, e il gioco è fatto. Non serve la censura totale. È stata una singola eccezione il solo “Sunday Times” edito a Londra. Durante un periodo di alcuni anni (dal ’92 al ’94), ha pubblicato con grande rilievo articoli a tutta pagina sulla questione, (4) riscuotendo notevole successo e vivace dibattito tra i lettori. Erano firmati da un grande giornalista, Neville Hodgkinson, appassionato e nel contempo obbiettivo, capo-redattore della sezione scientifica. Tuttavia la mesta conclusione è stata che al direttore del giornale, che aveva resistito alle pressioni esterne affinché lo allontanasse, “è stato affidato altro incarico” e, di conseguenza, lo stesso Neville Hodgkinson ha dovuto andarsene.
Appare quindi perlomeno curioso che negli Stati Uniti la ‘società civile’ sia stata tanto orgogliosa e intransigente da mettere a lungo sotto processo il suo presidente in carica per qualche bugia sulla sua sfera privata, mentre, nel contempo, abbia tollerato che, in settori ben più importanti e seri come la ricerca sull’Aids, la manipolazione della verità non avesse conseguenze di sorta e anzi potesse continuare nel tempo.
Vedremo, nel seguito, come scorrettezze formali e sostanziali abbiano interessato il cuore della ricerca sull’Aids e di cosa siano stati capaci di fare e di dire i suoi protagonisti, tenendo ben presente che si tratta di una scelta a scopo esemplificativo di fatti un po’ meno noti tra i tanti di cui abbiamo notizia.
Irregolarità riguardanti la diffusione epidemica
Chi non ricorda i grandi e drammatici titoli sul dilagare della spaventosa epidemia, negli anni 1986-1995? Le autorità sanitarie qualificavano come bugiardi e pericolosi irresponsabili coloro che facevano notare come stime e previsioni e interpretazioni della cosiddetta epidemia fossero abbondantemente sbagliate. La verità, sempre tenuta nascosta, è che, appunto, l’epidemia di sieropositività non c’è mai stata, dall’inizio dell’uso dei test ad ora (anni 1986-1999).
Ecco cosa ammette nel 1994 Patricia L. Fleming, direttrice della Reporting and Analysis Section della Divisione Aids dei Centers for Disease Control (i famosi CDC di Atlanta) a proposito dell’incidenza della sieropositività di fronte a Luca Rossi che la intervista:
“Siamo in grado di controllare tutte le donne che partoriscono negli Stati Uniti, per cui ogni anno sappiamo esattamente quante partorienti sono sieropositive: … esattamente lo 0,17%. La prevalenza del virus è assolutamente stabile.”
Tale bassa prevalenza è confermata anche da un altro dato e cioè dalla percentuale di sieropositività tra le reclute, rimasta costante negli anni:
- Luca Rossi: “È ragionevole pensare che lo 0,19% sia il tasso di sieropositività tra la popolazione eterosessuale?”
- Patricia L. Fleming: “Si, è ragionevole”.
Considerando che le reclute e le partorienti sono un campione molto rappresentativo della popolazione eterosessuale, questo significa semplicemente assenza di epidemia nella popolazione generale.
Quando Luca Rossi chiede a Meade Morgan di fargli controllare le previsioni erronee effettuate negli anni precedenti, il capo dello Statistics and Data Management Branch della Divisione Aids dei CDC, risponde che non è possibile: “Ce l’abbiamo, ma sono documenti interni, non per la pubblicazione. Generalmente a nessuno interessa quello che abbiamo fatto nel passato: vogliono sapere cosa prevediamo per il futuro” (sic!).
Anche in Italia le stime sono state corrette ogni anno, con l’implicita contemporanea ammissione che erano sbagliate quelle degli anni precedenti (nel pieno dell”epidemia’, le stime dei sieropositivi sono andate sempre calando, dal 1987 al 1998.
Quest’anno (il 4/5/99) c’è stata una novità: è comparso un articolo sul “Corriere della Sera” in cui veniva ammesso quanto era stato negato con veemenza, fino ad allora, per 14 anni.
Ecco il titolo: “Aids, GLI ITALIANI TRA ALLARMISMO E IGNORANZA” e il sottotitolo: “L’epidemiologo: Si è esagerato con il terrorismo, ci vorrebbe una nuova campagna di informazione”. All’interno dell’articolo si riportano alcune dichiarazioni, che segnalano il brusco cambiamento di rotta. Il prof. Rezza (direttore del Centro Operativo Aids) dichiarava: “Forse abbiamo esagerato con il terrorismo. Ci vorrebbe una nuova campagna di informazione, basata su dati più oggettivi”.
Paolo Lusso, docente di malattie infettive a Bologna e responsabile della ricerca sull’Aids al San Raffaele di Milano, allievo di Gallo, invita alla cautela: “Negli anni scorsi c’è stato un allarmismo esasperato, seguito da un ottimismo parimenti ingiustificato. Prima la peste e gli untori, poi il vaccino dietro l’angolo. Colpa delle autorità sanitarie”.
In altre parole: questi studiosi esortano a smettere con l’allarmismo, nella speranza che nessuno ricordi quanto da loro sostenuto nel passato (confidando nella scarsa memoria degli italiani, naturalmente).
Le stesse autorità sanitarie che contribuivano ad allarmare il pubblico sostenendo l’esistenza di un’epidemia in fase di espansione, sapevano bene che i dati, da loro stessi forniti, la negavano.
Per evitare equivoci: gran parte dei ‘dissidenti’ sostengono che l’epidemia di ‘sieropositività’ in Occidente non si è verificata (da quando i test sono divenuti disponibili per indagini di massa il tasso di sieropositività è rimasto stabile), mentre quella di Aids ha avuto proporzioni molto ridotte ed è rimasta confinata a certi particolari gruppi a rischio, indice inequivocabile di una sua origine non infettiva. L”esplosione epidemica’ africana sarebbe dovuta -sempre secondo i dissidenti – a “stime” alte a piacere e ad una definizione ed una modalità di diagnosi molto differenti, rispetto a quelle utilizzate nei paesi occidentali. In altre parole, l’Aids in Occidente e l’Aids in Africa sarebbero entità non confrontabili (una buona parte di casi classificati come Aids in Africa non sarebbero tali in Europa) anche se le autorità sanitarie le considerano una stessa malattia e l’OMS continua a raggrupparle assieme.
Irregolarità riguardanti il vaccino
È utile premettere che il vaccino per l’Aids è sempre stato concettualmente irrazionale ed è facile spiegarlo: perché dovrebbero essere di qualche utilità gli anticorpi da vaccino, se si è sempre sostenuto che gli anticorpi contro il virus, rivelati dal famoso test, sono inefficaci nell’impedire la malattia e sono la base per una prognosi infausta? La risposta è che non c’è nessuna ragione plausibile neanche nell’ambito della teoria ufficiale. La ragione del vaccino sta appunto nell’utilità degli anticorpi. Se non c’è quella, manca l’essenziale.
Sarà utile ricordare, inoltre, che i vaccini comportano rischi di reazioni collaterali, rischi di cui è indispensabile tenere conto, specie con gli immunodepressi.
Bene, tenendo presenti questi aspetti teorici non marginali, è interessante ricordare di cosa sono stati accusati nel 1991 Robert Gallo del National Cancer Institute di Bethesda (USA) e Daniel Zagury, dell’università parigina Pierre-et-Marie Curie. (10) Avevano sperimentato su bambini dello Zaire un vaccino ottenuto per esperimenti sulle scimmie, “nel massimo segreto”. Zagury si difese dalle accuse della comunità scientifica occidentale affermando che aveva ottenuto “il pieno supporto del comitato etico zairese”
Si può rimanere esterrefatti da simili affermazioni, ma Zagury si dimostrò presto ancora più disinvolto, sempre con la collaborazione di Gallo: almeno due pazienti con Aids da loro trattati con un vaccino sperimentale morirono per complicazioni legate al trattamento sperimentale.
Queste gravissime accuse sono sostenute dalle prove raccolte da un dermatologo francese, Jean Claude Guillaume, il quale aveva visitato un paziente che presentava delle lesioni necrotiche inusuali alla pelle; Guillaume non era stato in grado di effettuare una diagnosi, ma aveva fatto fotografie e preso dei campioni, che erano stati conservati. Il paziente era morto. Il mistero si era approfondito quando, alcuni mesi dopo, Guillaume aveva saputo da un collega che questo ultimo aveva visto un caso identico, anche quello fatale. Tutto gli si chiarì quando trovò una copia della rivista medica “The Lancet” in cui si parlava dell’esperimento di Zagury (e di ben altri 13 luminari, Gallo compreso), che consisteva nell’utilizzare, come vettore delle proteine dell’HIV, un altro virus, processato geneticamente e inattivato. Immediatamente capì che quelle lesioni erano da ‘vaccinia gangrenosa’ (provocata – in immunodepressi – da virus antivaioloso vivo).
Zagury, che allarmato telefonò a Guillaume, assicurò che i virus utilizzati in quegli esperimenti erano stati inattivati e l’ipotesi del dermatologo era assolutamente impossibile.
Ma i risultati dello studio istologico dei tessuti dimostrarono la presenza di virus vaccinico nelle cellule epiteliali del paziente confermando quanto sospettato.
Bene, nel rapporto preliminare (pubblicato nel luglio 1990 su “The Lancet”, appunto, si era precisato che una morte e 6 infezioni opportunistiche erano avvenute nel gruppo di controllo mentre nessuna complicazione e tantomeno decessi venivano menzionati nel gruppo dei vaccinati.
Oltre all’inganno della relazione fraudolenta, bisogna osservare che i due incidenti (da mancata inattivazione del virus) sono troppo strani per essere considerati dei semplici incidenti, primo perché sono avvenuti in laboratori altamente specializzati e con personale esperto, secondo perché sono avvenuti a mesi di distanza l’uno dall’altro. Questi elementi assommati alla mancanza di scrupoli etici degli autori, inducono inquietanti interrogativi e gettano ombre sinistre sul mondo e sul modo della ricerca medica. Infatti, se in quei laboratori al massimo livello non sono stati capaci di inattivare il virus vaccinico in più di una occasione, dimostrando una incompetenza e una leggerezza incredibili, di chi possiamo fidarci? Non dimentichiamo che ancora qualche anno dopo, Gallo aveva sostenuto a una conferenza sul tema che “l’unico modo di capire se un vaccino funziona è provarlo sul campo” (15) (ovvero sperimentarlo su popolazioni del terzo mondo, impossibilitate a dare un valido consenso informato, anche se le premesse teoriche e sperimentali sugli animali sono pessime).
Che non ci fosse nessun convincente appiglio teorico, come dicevamo, per poter sostenere le diverse sperimentazioni sugli umani, lo confermava a chiare lettere Dani Bolognesi, un collega e amico di Gallo, alla medesima conferenza tenuta nel 1994. Secondo l’esperto, il vaccino era “in un pantano” (16) sia dal punto di vista della ricerca che dei risultati! Per inciso, ora siamo alla fine del 1999 e il vaccino non c’è ancora, nonostante i ricorrenti ottimistici annunci.
Tornando a Gallo e Zagury, che conseguenze hanno avuto per la loro condotta? Hanno continuato a essere ospitati sulle principali riviste scientifiche, a proporre i loro esperimenti e a pontificare come niente fosse accaduto.
Le pesanti influenze economiche condizionanti la ricerca
Le pesanti implicazioni economiche nelle ricerche sono state ampiamente denunciate, tuttavia appaiono più evidenti quando sono ammesse dagli stessi esponenti degli istituti governativi.
Meade Morgan, dei CDC confessa a Luca Rossi:
“Molti si sono lamentati perché sostengono che non rappresentiamo correttamente le donne: e così, nella nuova definizione [dell’Aids, quella del 1993], abbiamo aggiunto il carcinoma uterino, che è una malattia caratteristicamente femminile.”
Perché mai?
“Ci sono lobby molto forti di lesbiche.”
“Ma le lesbiche non hanno l’Aids.”
“No, è proprio di questo che si lamentano … e loro pensano che sia una discriminazione.”
Perché? Vogliono avere l’Aids?
“Non vogliono l’Aids, ma i soldi.”
Quando gli viene chiesto di esprimersi su Fauci, potente direttore del National Institute of Health, così si esprime Meade Morgan:
“… il suo lavoro è ottenere i soldi per la sua organizzazione, non c’è dubbio su questo. Penso che se ci fossero ragioni per sostenere la teoria delle concause, girerebbe la situazione a suo favore. Non direbbe: mi sono sbagliato. Direbbe: ecco qualcosa che dobbiamo studiare. E siccome non l’abbiamo ancora fatto, dateci il doppio per farlo.”
Sophie Chamaret, ricercatrice del gruppo di Montagnier, sollecitata da Rossi a esprimersi sul comportamento degli americani (in particolare Gallo e Fauci), dice:
“Negli Stati Uniti hanno un contratto, se non trovano niente entro un certo periodo, se non hanno pubblicazioni interessanti o un avanzamento del lavoro, arrivederci signori, è finita. Dunque bisogna che trovino qualcosa. Per questo diventano ladri. Hanno bisogno di trovare qualcosa, qualsiasi cosa.”
Duesberg a proposito degli interessi francesi:
“Ci sono pressioni enormi. Pensi soltanto all’Istituto Pasteur di Parigi, dove lavora Montagnier. Ogni anno ricevono milioni di dollari dai test dell’IV. S’immagina? Dici che non c’è l’HIV? Bravo Luc, tornatene nella Legione Straniera. Abbiamo bisogno di soldi, baby.”
Quindi, sembra che talvolta la ricerca scientifica che porta al vero progresso non sia favorita dai fondi, ma paradossalmente ne sia negativamente influenzata.
Irregolarità riguardanti la dimostrazione del nesso causale Hiv-Aids
Uno degli argomenti di battaglia dei dissidenti è sempre stato il seguente: non c’è nessun lavoro che dimostri che l’HIV causa l’Aids. Tuttavia, sia in testi recenti che non recenti tale dimostrazione viene attribuita ai lavori di Gallo e Montagnier (pubblicati nel 1983 e 1984).
In verità, nei suoi lavori su “Science” del 1984, Gallo non ha mai fatto direttamente una simile asserzione. Neppure Montagnier lo ha fatto: per dirla con i loro termini, l’HIV (LAV o HTLV-III) era solamente “un buon candidato”, nulla più. Successivamente cambiarono radicalmente idea. Gallo, per esempio, dichiarò nel 1993:
“La prova inconfutabile che ha convinto la comunità scientifica che questa specie di virus è la causa dell’Aids è venuta da noi. La giusta crescita di questo virus proviene da questo laboratorio principalmente tramite Mika Popovic. Lo sviluppo di un esame del sangue sensibile, ben funzionante. Non penso che ci sia qualcosa da discutere. Penso che la storia parli da sé.”
Possiamo osservare che se gli stessi fatti ed esperimenti vengono interpretati un giorno in una maniera, un giorno in un’altra, senza alcuna giustificazione, allora si tratta di operazioni politiche (nel senso spregiativo del termine), e non scientifiche.
Ben se ne è accorto Luca Rossi, alle cui stringenti domande sia Montagnier che Gallo non hanno saputo rispondere se non con argomenti circolari. Ecco cosa è arrivato al punto di dire Montagnier:
“Non è importante sapere la causa. È importante trovare una cura o un vaccino. Non è necessario dimostrare qual è la causa. Lo sarebbe per quelli come Duesberg, per farli tacere.”
Insomma sarebbe importante sapere, ossia dimostrare, la causa dell’Aids solo per far tacere quelli come Duesberg! Non poteva chiarire meglio il suo pensiero.
Gallo non è da meno: a Luca Rossi che gli pone la stessa domanda (su quale sia la prova definitiva che l’HIV causa l’AIDS), risponde:
“E già stata data.”
“Ma dov’è?”
“Io non vedo alcun problema e non ne voglio parlare.”
Gallo insomma rifiuta la risposta, anche se poco prima, nella medesima intervista, aveva ribadito che “un’ipotesi deve essere provabile e provata: il resto sono parole a vanvera.”
Ognuno giudichi se i suoi comportamenti siano conseguenti a quest’ultima affermazione epistemologica.
Il commento di Rossi è notevole nell’evidenziare le fallacie logiche di queste pseudo-argomentazioni:
“Qual è la prova? Che se avremo il vaccino vinceremo. Magnifico. Qual è la prova che l’HIV causa l’Aids? La prova è che se avremo un vaccino contro l’HIV preverremo l’Aids. Già. Ma qual è la prova? Qual è la prova che l’HIV causa l’Aids? La prova è che un giorno l’avremo. Non ce l’abbiamo, finora. Abbiamo un vaccino? No, non l’abbiamo, ma l’avremo. Avremo un vaccino contro qualcosa che quando avremo il vaccino sapremo che cos’era. Sapremo perché abbiamo inventato questo vaccino solo dopo che l’avremo inventato. Sappiamo qual è la causa dell’Aids? Possiamo dimostrarla? No, ma quando avremo sconfitto l’Aids lo faremo. Per adesso non possiamo, ma siamo fiduciosi. La prova che siamo nel giusto è che quando avremo il vaccino sapremo qual era la malattia, sapremo da cosa ci deve difendere il vaccino. Prima dobbiamo trovarlo, poi sapremo perché l’abbiamo trovato…. Non sappiamo come lavora, il virus, ma sappiamo che se lo sconfiggeremo avremo la prova che bisognava sconfiggerlo, la prova finale.”
A questo punto, poiché non possiamo fidarci troppo di scienziati interessati più alla politica della ricerca che all’accertamento della verità, è utile considerare cosa questi scienziati fecero nei lavori pubblicati nel 1983-84, considerati fondamentali e già citati.
Irregolarità riguardanti la scoperta del virus
Molti ricordano che si protrasse a lungo la discussione su chi, tra Gallo, Montagnier e pure Weiss, avesse effettivamente isolato per primo il virus HIV. Tutti e tre si sono infatti considerati suoi ‘co-scopritori’. Tutti e tre vantarono di aver ottenuto degli isolati pressoché identici a quello iniziale proveniente dal laboratorio Pasteur di Parigi. Pensavano allora che questo potesse essere una conferma reciproca, poiché una identità biologica, quale un virus, avrebbe dovuto essere come tutte le altre: stabile e identica a sé stessa. Invece all’epoca non sapevano ancora quello che essi stessi avrebbero sostenuto in seguito e cioè che neppure nello stesso paziente gli ‘isolati’ coincidono. Anzi, una enorme, incredibile variabilità sarebbe stata la regola.
Nel caso dell’HIV la differenza del corredo genetico arriverebbe al 10%, 13% e fino a oltre il 40% mentre fino allora differenze dell’1% nell’ambito della stessa specie venivano considerate come ‘estrema variabilità’ – il nostro patrimonio genetico differisce per il 2% da quello degli orangoo-tan e per l’1% da quello degli scimpanzée –). Come potevano allora i loro primi ‘isolati’ essere uguali, se provenivano, come sostenuto, da pazienti diversi in tempi differenti? “Si son rubati l’un l’altro dei diamanti falsi”, è stato il sarcastico e puntuale commento di Duesberg.
Gli aspetti poco limpidi non si limitano a questo; una commissione governativa statunitense (nominata dall’OSI, Office of Scientific Integrity dell’NIH) appurò nel 1991 che nei laboratori di Gallo c’erano “differenze tra quanto venne descritto e quanto venne fatto” (nei lavori pubblicati nell’aprile 1984 su “Science”). Il collaboratore di Gallo, Popovic, venne accusato di “condotta riprovevole per dichiarazioni false e inesattezze” e si concluse che Gallo “come capo di laboratorio creò e favorì condizioni che diedero origine a dati falsi/inventati e a relazioni falsificate”. Ciò nonostante, questa commissione si affrettava ad aggiungere nel rapporto che i risultati ottenuti con quei … ‘dati’ e quelle relazioni falsificate non venivano compromessi! (30) Sotto un certo punto di vista non avevano tutti i torti: se infatti si fingesse che quei dati fossero veri, il risultato non cambierebbe, anche se opposto a quello vantato. Gallo stesso sostenne che quello descritto da Montagnier nel 1983 “non fu vero isolamento”, mentre il suo sì. Eppure Gallo adottò esattamente le stesse procedure di laboratorio. Procedure che non gli avevano portato molta fortuna alcuni anni prima e che vale la pena di riconsiderare.
Quel che avvenne lo spiega Eleni Papadopulos Eleopulos, ricercatrice australiana ed uno dei maggiori critici della teoria infettiva:
“Nel 1984 Gallo aveva già passato più di una decina d’anni nella ricerca dei retrovirus e del cancro. Era uno dei molti virologi coinvolti nel decennio della guerra contro il cancro del Presidente Nixon. Verso la metà degli anni ’70 Gallo affermò di aver scoperto il primo retrovirus umano in pazienti affetti da leucemia. Affermava che i suoi dati provavano l’esistenza di un retrovirus che egli chiamò HL23V. Ora, proprio come avrebbe fatto più tardi per l’HIV, Gallo usò le reazioni agli anticorpi per ‘provare’ quali proteine nelle colture erano proteine virali. E non molto tempo dopo altri proclamarono di aver trovato gli stessi anticorpi in molte persone che non avevano la leucemia. Comunque, pochi anni dopo si dimostrò che questi anticorpi capitavano in modo naturale ed erano diretti contro molte sostanze che non avevano niente a che fare con i retrovirus. Allora ci si rese conto che l’HL23V era un grosso errore. Non vi era alcun retrovirus dell’HL23V. Così i dati di Gallo diventarono motivo di imbarazzo e ora l’HL23V è scomparso. Quello che ci sembra interessante è sapere che la dimostrazione usata per affermare l’esistenza dell’HL23V è lo stesso tipo di dimostrazione data per provare l’esistenza dell’HIV. In effetti la prova dell’HL23V era migliore di quella dell’HIV”.
La fotografia del virus
È quasi inevitabile a questo punto obiettare che sono state mostrate diverse fotografie dell’HIV, diventa necessario perciò ridimensionare anche questo argomento.
Il virus, per essere isolato, deve prima essere concentrato e purificato con una procedura che dal punto di vista teorico e tecnico è relativamente semplice (si tratta di una particolare tipo di centrifugazione e poi di una verifica al microscopio elettronico).
Ma Montagnier non riuscì a trovarlo proprio in quel materiale concentrato dove avrebbe dovuto esserci ‘virus puro’ (da dove, per esempio, vengono ricavati i reattivi per i vari test…):
“Vedemmo alcune particelle, ma non avevano la morfologia tipica dei retrovirus…Ripeto, noi non purificammo.”
In altre parole Montagnier dice: noi non isolammo l’HIV, noi non dimostrammo la sua esistenza. È difficile essere più chiari.
La fondamentale osservazione – che solitamente viene taciuta – è che le particelle fotografate e spacciate per virus HIV possono trovarsi sia in colture cellulari ‘infette’ sia in quelle ‘non infette’, indice di non specificità. Ed è perciò che l’intervistatore, Djamel Tahi, chiede:
“Non poteva essere qualcosa d’altro invece di un retrovirus?”
Luc Montagnier: “No… beh, dopo tutto, sì… poteva essere un altro virus a sporgere [dalla cellula]. Ma c’era un… noi abbiamo un atlante.”
Conclusione
In questa sede abbiamo sostenuto che anche nella ricerca scientifica sono molto comuni comportamenti scorretti, del tutto simili a quelli riscontrabili nel resto della società, anche se molti continuano a rifiutare quest’idea. Fin dal 1987 sono affiorate irregolarità e autentiche frodi nella ricerca sull’Aids, ma la loro pubblicazione non ha sortito l’effetto di provocare una reazione correttiva. Eppure la gravità delle denunce e la pesantezza delle implicazioni è manifesta anche nei pochi esempi – scelti tra i tanti possibili – che sono stati qui descritti (irregolarità riguardanti l’epidemiologia, il vaccino, la distribuzione dei fondi, la dimostrazione del nesso causale HIV-Aids, la stessa dimostrazione dell’esistenza dell’HIV). I responsabili non sono stati perseguiti, bensì incoraggiati nei loro comportamenti. La censura operata sui grandi mezzi di comunicazione è stata sufficiente – almeno sinora – a guidare l’opinione pubblica e quella scientifica.
Se ne è reso conto in modo drammatico lo stesso Luca Rossi, il quale, sicuro di poter finalmente rivelare ai suoi lettori il frutto della sua accurata inchiesta con uno scoop eccezionale (dalle pagine di un importante settimanale), si è sentito rispondere dal suo direttore:
“Caro, dice, ricordati una cosa. Noi siamo la verità, qui. La verità. Se pubblichiamo una cosa del genere è un casino. E io devo pensare al mio culo di direttore. Questo dice. Caro.”
La conclusione sconfortante è che noi dobbiamo arrenderci al fatto che molti hanno le loro parti meno nobili da difendere? Questo atteggiamento andrebbe forse bene se il nostro compito di ricercatori e di scienziati fosse solo quello di dare un resoconto delle umane deficienze, ma è palesemente insufficiente per gli scopi di una società libera dove il progresso della verità può sorgere solo dalla discussione libera e spregiudicata. Questa discussione è stata ed è scoraggiata. Non è certamente la prima volta che ciò accade nella storia della scienza. A nostro parere, tuttavia, la connessione tra salute, sesso, morte rende l’episodio delle distorsioni nella ricerca sull’Aids particolarmente grave. Il tutto è stato aggravato dall’atteggiamento conformistico della quasi totalità degli organi di informazione.
Il coraggioso scritto di Luca Rossi, dal quale abbiamo preso le considerazioni e stralci delle sue interviste, si conclude infatti con accenti sconfortati e pessimistici, che ne accrescono, se possibile, la qualità intellettuale. Ma la lettura del suo coinvolgente libro e l’indagine su questo caso di inganno scientifico insegnano per lo meno che l’atteggiamento critico nei confronti delle opinioni, delle dottrine e delle teorie dominanti deve essere continuamente rinnovato per essere autentico. Si tratta, oltre tutto, di un atteggiamento che è indispensabile trasmettere a chi ha la responsabilità della formazione delle nuove leve di intellettuali e ricercatori.
Note.
(1) Comunicazione personale a Fabio Franchi. back
(2) L. Rossi, Sex virus, Milano, Feltrinelli, 1999 p. 383. back
(3) P. Duesberg Human Immunodeficiency virus and acquired immunodeficiency syndrome: Correlation but not causation, “Proceedings of the National Academy of Sciences”, 1989; 86:755-764. back
(4) N. Hodkinson (elenco dei 12 articoli pubblicati sul “Sunday Times” dal 1992 al 1994). http://www.virusmyth.com/aids/index/nhodgkinson.htm. back
(5) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 105. back
(6) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 112. back
(7) L. Rossi, Sex virus, cit. p. 118. back
(8) Centro Operativo AIDS. ISS. Aggiornamento dei casi di AIDS notificati in Italia) Notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità (Aggiornamenti periodici). back
(9) L. De Marchi & F. Franchi, AIDS la grande truffa, Roma, SEAM, 1996, p 69-79. back
(10) Vaccino anti-AIDS inchiesta in Francia, “Il Medico d’Italia”, 1991; 1904: 2. back
(11) Death in vaccine trial trigger French enquiry, “Science”, 1991;252:501-2. back
(12) Death in vaccine trial trigger French enquiry, cit. back
(13) O. Picard, P. Giral, M.C. Defer et alii (14 autori tra cui anche R. Gallo!), AIDS vaccine therapy: phase I trial, “The Lancet”, 1990; 336:179. back
(14) P. Dri, Il vaccino anti-AIDS nella bufera, “Tempo Medico”, 1 maggio 1991. back
(15) R. C. Gallo intervento in “AIDS and related diseases 1994” (Meeting). CRO, Aviano (Italy), 9 Aprile, 1994 (registrazione personale di Fabio Franchi). back
(16) D. Bolognesi, intervento in “AIDS and related diseases 1994” (Meeting). CRO, Aviano (Italy), 9 Aprile, 1994 (registrazione personale di Fabio Franchi). back
(17) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 119. back
(18) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 120. back
(19) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 392. back
(20) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 390. back
(21) L. Rossi, Sex virus, cit., pp. 254-5. back
(22) De Vita VT, Jr., Hellman S., Rosenberg SA. Curran J., Essex M. and A S Fauci. AIDS: Biology, Diagnosis, Treatment and Prevention, Lippincott-Raven Publishers, 19974, pp 177-195. (un autore è A. Fauci, ex direttore del National Institute of Health). back
(23) Mandell/Douglas/Bennet. Principles and Practice of Infectious Diseases, Wiley Medical, 19852, p 1670. back
(24) M. Popovic, M. G. Sarngadharan, E. Read, et alii, Detection, Isolation,and Continuous Production of Cytopathic Retroviruses (HTLV-III) from Patients with AIDS and Pre-AIDS, “Science”, 1984; 224: 497-500; R. C. Gallo, S. Z. Salahuddin, M. Popovic, et alii, Frequent Detection and Isolation of Cytopathic Retroviruses (HTLV-III) from Patients with AIDS and at Risk for AIDS, “Science”, 1984; 224: 500-502. back
(25) F. Barré-Sinoussi et alii (including L. Montagnier), Isolation of a T-lymphotropic retrovirus from a patient at risk for aquired immune deficiency syndrome (AIDS), “Science”, 1983; 220: 868-871. back
(26) “The Plague”(La piaga, il flagello), documentario televisivo, USA 1993. back
(27) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 319. back
(28) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 395. back
(29) E. Papadopulos-Eleopulos, V. Turner, J. M. Papadimitriou, D. Causer, The Isolation of HIV. Has it Really Been Achieved? The Case Against, “Continuum”, Sept/Oct, 1996; 4(3):1-24. back
(30) E. Papadopulos-Eleopulos, V. Turner, J. M. Papadimitriou, Has Gallo Proven the Role of HIV in AIDS? “Emergency Medicine”, 1993; 5: 5-147. back
(31) C. Johnson, Is HIV the Cause of AIDS? An interview with Eleni Papadopulos-Eleopulos, “Continuum”, Autumn 1997. back
(32) I tre principali criteri di isolamento utilizzati da Gallo e Montagnier: a) reazione anticorpale al test dell’AIDS (e ricerca dell’antigene), b) attività transcriptasica inversa, c) presenza di particelle similvirali in colture cellulari ‘infettate’ e stimolate con PHA. back
(33) E. Papadopulos-Eleopulos, V. Turner, J. M. Papadimitriou, Has Gallo Proven the Role of HIV in AIDS? “Emergency Medicine”, cit. back
(34) V. Turner, What Is the Evidence for the Existence of HIV?, http://www.virusmyth.com/aids/data/vtevidence.htm. back
(35) V. Turner, Do HIV Antibody Tests Prove HIV Infection?, http://www.virusmyth.com/aids/data/vttests.htm. back
(36) S. Zolla-Pazner et alii, Reinterpretation of HIV Western Blot Patterns, “New England Journal of Medicine”, 1989; 320:1280-1. back
(37) J. Maddox, Aids research turned upside down, “Nature”, 1991; 353:2. back
(38) E. P. Eleopulos, V. Turner, and J. M. Papadimitriou, Is a positive Western Blot Proof of HIV Infection?, “Bio/Technology”, 1993;11: 696-707; F. Franchi, Alla ricerca del virus HIV, “Leadership medica”, 1998,7:18-33. back
(39) D. Thai (interview to Luc Montagnier), Did Luc Montagnier discover HIV? “I repeat, we did not purify”, “Continuum”, 1997; 5: 30-4. back
(40) E. P. Eleopulos, V. Turner, and J. M. Papadimitriou, Is a positive Western Blot Proof of HIV Infection?, “Bio/Technology”, 1993;11: 696-707. back
(41) D. Thai (interview to Luc Montagnier), Did Luc Montagnier discover HIV? “I repeat, we did not purify”, “Continuum”, 1997; 5: 30-4; F. Franchi, Alla ricerca del virus HIV, cit. back
(42) D. Thai (interview to Luc Montagnier), Did Luc Montagnier discover HIV? “I repeat, we did not purify”, “Continuum”, 1997; 5: 30-4; F. Franchi, Alla ricerca del virus HIV, cit. back
(43) L. Rossi, Sex virus, cit., p. 314. back
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