Scienziati e associazioni accusano: l’industria dei medicinali trucca la ricerca nascondendo i test sfavorevoli. 81 mila firme e nuovi regolamenti invocarono più trasparenza
Ben Goldacre, il giovane epidemiologo londinese autore del bestseller Bad Pharma.
How Drugs Companies Mislead Doctors and Harms Patients (in italiano Effetti collaterali, Mondadori), nonché il titolare di Bad Science, seguitissima rubrica più blog sul quotidiano Guardian, può ritenersi soddisfatto solo a metà.
La petizione mondiale AllTrials, che si batte per la pubblicazione di tutti gli studi effettuati su un farmaco, di cui dal 2013, da quand’è nata, è un portavoce senza peli sulla lingua, oltre ad aver raccolto più di 81mila firme e l’adesione di oltre 521 organizzazioni, ha ottenuto un’importante ma parziale vittoria: l’Ema, l’European Medicines Agency di Londra, renderà pubblicamente consultabili da gennaio 2015 le sperimentazioni cliniche di ogni nuovo medicinale, immediatamente dopo la relativa domanda d’immissione sul mercato. Peccato che la decisione trascuri i farmaci studiati prima di tale data, e anche i “vecchi”, per esempio quelli inventati negli anni 90, tuttora prescritti e presumibilmente destinati a curare ancora una generazione di malati.
E che l’Ema offra una protezione sia alle informazioni commerciali eventualmente riservate, sia ai dati sui pazienti che hanno partecipato alle sperimentazioni. Che spesso, invece, potrebbero collaborare con il lavoro di scienziati, industria e legislatori.
Certo, la notizia è di quelle che fanno ben sperare, se non altro in vista del nuovo regolamento sui trial clinici che decollerà nel maggio 2016. La discrezionalità lasciata ai produttori farmaceutici di poter eliminare alcune informazioni però preoccupa gli esperti. Perché potrebbe aver a che fare con quella che i media americani hanno cominciato a chiamare Sindrome di Pinocchio, tra le più gravi patologie che affliggono la medicina moderna: la misteriosa “scomparsa” di risultati negativi/ambigui sui farmaci entrati in commercio.
Il paragone con le favole non inganni, parliamo di un morbo che ha costi esorbitanti, e non solo per la coscienza di alcuni addetti ai lavori. O per la reputazione della ricerca. Vediamo uno degli episodi che recentemente, a questo proposito, ha fatto più scalpore. La Cochrane Collaboration, ente no-profit di specchiata autorevolezza, dal 1993 impegnato nella revisione sistematica qualitativa e nella meta-analisi quantitativa degli studi clinici, ha sciorinato cifre da vertigine, un miliardo e 300 milioni di dollari Usa, sui 500 milioni di sterline inglesi, 184 milioni di euro (pagati dai contribuenti italiani)… , per una somma totale di fondi pubblici calcolata sui 20 miliardi di dollari. Tutti spesi, qualche anno fa, per fare mastodontiche scorte di antivirali. In sintesi, quanto è costata la “bufala” del Tamiflu, l’anti-influenzale spinto con la grancassa dalla Roche; il farmaco, incoronato da trial clinici messianici e favorito da un allarme pandemico da fine del mondo, era la star tra quelli stoccati a dismisura dai governi di vari paesi, in previsione dell’influenza aviaria del 2006 e di quella suina del 2009.
Non solo le due pronosticate pestilenze si sono rivelate poco più che mali di stagione (e non lamentiamocene). I trial clinici a disposizione confrontavano la molecola oseltamivir del Tamiflu con un placebo e non con farmaci già efficaci. Non producevano i dati negativi o poco lusinghieri; e non indagavano sufficientemente complicazioni, effetti collaterali (Newsweek ha recentemente scritto di pazienti giapponesi colti dal delirio e indotti al suicidio) e controindicazioni.
Inutile dirlo, il Tamiflu ha deluso le aspettative, non riducendo affatto ospedalizzazioni e contagi, ma semmai accorciando di neanche 24 ore i sintomi: sarebbe stato più produttivo prendere una pastiglia di paracetamolo e mettersi al caldo sotto il piumone. Eppure i ricercatori della Cochrane hanno dovuto giocare al gatto e al topo con la Roche per ben 5 anni, prima di mettere le mani su 70 trial mai studiati da nessuno.
Il nocciolo della questione è però un altro. È che la Sindrome di Pinocchio, più seriamente detta “publication bias” (in italiano: l’errore sistematico di pubblicazione, generato dal fatto di ritenere che le ricerche rese pubbliche siano tutte quelle effettivamente realizzate, col risultato di sovrastimare la bontà del farmaco sperimentale), non ha mai avuto contro regole condivise. La Roche, a suo tempo, si è tranquillamente comportata come si sarebbe comportata quasiasi altra grande azienda farmaceutica. «In realtà una linea-guida internazionale manca a tutt’oggi.
La petizione di AllTrials porta suggerimenti in questo senso ed è stata mandata, lo scorso 15 novembre, all’esame dell’Organizzazione mondiale della sanità, in vista di un documento di policy che potrebbe uscire nei prossimi mesi», spiega Roberto D’Amico, docente di statistica medica dell’università di Modena e Reggio Emilia e direttore del Centro Cochrane italiano. Che passa poi a sottolineare anche l’azione di Comet Initiative (Comet sta per Core Outcome Measures in Effectiveness Trials), un network internazionale che svolge attività di ricerca per definire il “set minimo” di esiti importanti nelle varie patologie, che devono essere riportati negli studi clinici e sono utili a chi deve prendere decisioni sull’efficacia degli interventi sanitari.
Alla sua si affianca la riflessione di Antonio Addis, che è stato national expert presso la Pharmacovigilance Unit dell’Ema, e oggi coordina l’area governance della ricerca e dell’agenzia sanitaria dell’Emilia Romagna: «Sottolinerei un punto cruciale: mettere soltanto a disposizione i dati non basta, in quanto corrispondono a una mole tale di pagine da risultare inaccessibili senza la disponibilità di sistemi che rendano ricercabili i materiali, che li strutturino. Una classificazione, questa, che dev’essere effettuata da professionisti». Banalmente: ci vogliono “sommari”, altrimenti è Babele. Anche per non prestare il fianco a un tipo diverso di polemica. La gente potrebbe fare un sacco di cose stupide con la trasparenza, pare abbia infatti detto l’amministratore delegato di una società biotech. Una battuta di parte, certo. Roberto D’Amico ribatte: «La verità è che oggi nemmeno la trasparenza ha regole condivise. Ecco perché se ne sta discutendo moltissimo».
Detto questo, è da un po’ che gli anti-Pinocchio snocciolano dati. Su 585 trial americani iniziati prima del 2009, nel 2012 ben un terzo (percentuale che includeva la bellezza di 250mila studi di fase 1,2 e 3, dunque su esseri umani) risultava ancora non pubblicato. Nello stesso lasso di tempo, l’oblio ha caratterizzato più facilmente i trial finanziati dall’industria farmaceutica (32%) che quelli sostenuti da fondi pubblici (18%). Nel 2010, sempre negli Usa, il National Institute of Health ha segnalato che i trial pagati da Big Pharma nascevano già con una probabilità di risultare “degni di interesse” 20 volte più alta di quella degli studi indipendenti.
C’è poi chi ha calcolato che, globalmente nel mondo, circa il 50% delle sperimentazioni cliniche non vede diffusione. E c’è stato il clamoroso gran rifiuto dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, che se ne è uscito sbattendo la porta dal progetto Combacte, avviato l’anno scorso per sviluppare una molecola della GlaxoSmithKline che dovrebbe aggredire la resistenza batterica, compreso in una joint-venture tra gruppi di scienziati Ue e industria farmaceutica. In sintesi, un matrimonio pubblico-privato, accademia-industria.
Ottimo per garantire e anche finanziare una ricerca sempre più complessa, lunga e costosa, secondo quanto sostenuto da Silvio Garattini, direttore dell’Istituto. Il quale però ha finito col contestare all’azienda l’ipercontrollo sulla sperimentazione e soprattutto la pretesa di decidere sulla condivisione e la pubblicazione dei risultati. «Non sarei contrario a questo tipo di collaborazioni. A patto che ci sia condivisione sull’identificazione dei quesiti su cui c’è incertezza, al fine di ridurla quest’incertezza, per il bene dei pazienti. E, ovvio, che non ci sia alcun vincolo sulla pubblicazione. In sintesi: le regole devono essere chiare prima dell’inizio dello studio», commenta Roberto D’Amico. «Pensiamo soprattutto alla ricerca indipendente, finanziata dalle istituzioni, che necessiterebbe di più fondi», continua.
La scienza riuscirà prima o poi a dettare l’agenda al business? Per il dottor Goldacre e per il movimento che gli vien dietro l’importante è che non si confezionino altre medicine miracolose per il Paese dei Balocchi. Tamiflu, certo, ma anche il dottor Goldacre,anche l’antidepressivo reboxetina (Davedax), dalle incredibili performance se confrontata con i placebo. O la paroxetina, altro antidepressivo, che negli Usa è stata prescritto off-label ai bambini, e cioè utilizzato in condizioni non previste dalla scheda tecnica del prodotto, e poi si è rivelato carica di inquietanti effetti collaterali (rischio di suicidio). O gli anti-aritmici simili alla lorcainide, 13 anni di guai evitabili se fossero state subito registrate e diffuse le performance via via sospette… Nell’elenco anche i trial per gli antiobesità Acomplia, della Sanofi-Aventis, e orlistat, una molecola commercializzata da Roche e Glaxo, e per l’antidolorifico Vioxx della Merck Sharp & Dohme…
«Credo che quest’esigenza di trasparenza abbia dato il via a una nuova era della storia della medicina», dice Ben Goldacre. Che sa di vivere in un’epoca devota ai dati e di aver giocoforza convinto, non sempre con la massima spontaneità, certo, gran parte delle multinazionali del farmaco. In questo spalleggiato da un altro medico-star, il danese Peter C. Gøtzsche, leader del Nordic Cochrane Center, contestato contestatore dello screening mammografico contro il tumore al seno e del faraonico marketing delle aziende farmaceutiche (per le quali ha lavorato da giovane, sa quel che dice!). Di Gøtzsche sta tra l’altro arrivando in Italia, a primavera 2015, l’urticante bestseller Deadly Medicines and Organised Crime: How Big Pharma Has Corrupted Healthcare, per Giovanni Fioriti Editore. Ma attenzione, l’uno e l’altro, come del resto i firmatari di AllTrials, usano parole pesanti come macigni proprio perché nella medicina credono moltissimo. E non hanno niente a che fare con la diffidenza “oscurantista”. «Penso anzi che il complottismo puerile abbia fatto molto comodo a Big Pharma», ha proclamato Goldacre in un’intervista. Come dire: chiedere la trasparenza con i farmaci è ben diverso che prendersela coi vaccini.
*******PER SAPERNE DI PIÙ*******
Oltre a Effetti collaterali. Come le case farmaceutiche ingannano medici e pazienti di Ben Goldrake, pubblicato in Italia l’anno scorso, e a Farmaci
che uccidono e crimine organizzato. Come Big Pharma ha corrotto il sistema sanitario, di Peter C. Gøtzsche, anch’esso scritto nel 2013 e presto disponibile nella nostra lingua, sull’argomento ci sono altre letture interessanti. A cominciare dalla discussa Guida critica a 4.000 farmaci i più utili, inutili o dannosi per la nostra salute (Sonda), scritta dai due celeberrimi medici francesi Philippe Even e Bernard Debré, quelli che si sono scagliati anche contro il business delle statine.
Ma il grande classico resta Farma & Co. Industria farmaceutica: storie straordinarie di ordinaria corruzione (Il Saggiatore, 2006), scritto nel 2005
da Marcia Angell, classe 1939, prima e unica donna al timone del New England Journal of Medicine
e ancora oggi paladina della buona ricerca.